lunedì 27 febbraio 2012

LA PATRIA DELLO ZUCCHERO - Venezia città dei dolci

Raffinatori di zucchero in una manifattura veneziana



















In quel latino un po' goffo diffusosi nel medioevo si chiamavano "sacchettis venetis" alcuni sacchettini in tela in cui si trovavano grani di zucchero spesso aromatizzati. La città di Venezia ne produceva in gran quantità e andava a prelevare lo zucchero in Palestina, dove lo aveva conosciuto con le Crociate: ad introdurlo nel Mediterraneo furono gli Arabi.
L'arrivo dello zucchero in Europa sorprese i mercanti: il miele, infatti, era fino al Medioevo usato come unico dolcificante: ma quando ci si accorse che lo zucchero lo sostituiva ed era anzi migliore e più gustoso da ogni parte d'Europa ricchi e notabili richiesero sacchi di zucchero.
Si diceva che i "sacchettis venetis" valessero così tanto che venivano lasciati in eredità ai discendenti oppure dati in dote alle spose.
Nei secoli seguenti la Repubblica fece coltivare la barbabietola anche a Creta (chiamata Candia): per tale motivo nacque lo zucchero "candioto" con il quale venivano caramellati frutti e dolci chiamati "candii": ecco l'etimologia del termine frutta candita!
I raffinatori di zucchero erano estremamente abili nel creare forme di zucchero, sciogliendolo e raddensandolo lasciandolo raffreddare in stampi appositi.
Era tradizione che i Procuratori di San Marco ad ogni membro del Maggior Consiglio, in occasione dell'insediamento di tale assemblea ogni 4 dicembre, giorno di Santa Barbara, donassero quattro pani di zucchero ad ogni patrizio veneziano entrato nell'organo di stato.
La diffusione dello zucchero, inoltre, causò la nascita a Venezia di una produzione dolciaria senza precedenti in Europa: fu infatti la prima città dell'Occidente a sviuppare una tradizione culinaria in cui si usava lo zucchero: i dolci veneziani contemporanei sono ancor oggi una gustosa testimonianza storica di questo antico primato della Serenissima.

ALVISA ZAMBELLI - Tra sacro e profano

Una docente dell'Università di Padova, ordinaria alla Facoltà di Lettere e Filosofia, la Professoressa Adelisa Malena ha evidenziato in una propria ricerca l'interessante figura di Alvisa Zambelli, ebrea convertitasi al Cristianesimo. Dal suo studio è tratto questo piccolo riassunto: per maggiori approfondimenti Studio sulla figura di Alvisa Zambelli della Professoressa A. Malena.
Una figura difficile e complessa: ogni documentazione su di lei ci proviene da una cronaca del suo confessore, di cui tratteremo più avanti.
1697: Alvisa nasce a Verona col nome di Lea Gaon dal rabbino Moisè e da sua moglie Rachele.
Ghetto di Venezia
Ancora bambina Lea si trasferisce a Spalato, in Dalmazia, sede di un contado e di una castellania veneziana. Fin da piccola pare non rispettare le tradizioni ebraiche ed anzi non sopportarle. Il padre ne ha dispiacere ma pare ci sia una ragione: ci sono apparizioni e manifestazioni del soprannaturale: Lea/Alvisa è turbata dalla visione del Diavolo ma è confortata dalla Vergine Maria col Bambino e dagli Angeli. Nel 1710 si sposa con Abramo Fiamengo, un ebreo del Ghetto di Venezia in cui va vivere: sempre in ghetto partorisce quattro anni dopo il figlio Mardocheo Fiamengo. Abramo però maltratta la moglie, la picchia e le ruba denaro e beni di valore: all'improvviso sparisce e va a Zante, dove viene battezzato e si fa Cristiano col nome di Lorenzo Zambelli. Lea inizia a viaggiare: Castelfranco, Trento, Verona. Nel dicembre 1718 fa richiesta di entrare nella Casa dei Catecumeni di Venezia, vicina alla chiesa della Salute: il Priore viene a prenderla: ma la scelta della conversione è tormentata anche dalle apparizioni diaboliche: pur di non seguire quell'uomo venuta a portarla via dalla vecchia vita si lancia da una finestra in un rio e sta per affogare ma due barcaioli la salvano: solo in quel momento vede che un angelo, pregando per lei il Signore l'ha salvata.
Il Priore osserva la scena e si porta via Mardocheo: Lea è sola, senza il figlio ed il marito: prega la Vergine Maria chiedendo la salvezza della sua anima. Il 20 maggio 1718 entra nella Casa dei Catecumeni: viene battezzata il 12 dicembre con il nome di Alvisa Lucia Aleotti (il nome deriva dal fatto che Alvisa Campalti, sua suscipiente ma anche perchè il giorno successivo al Battesimo si festeggiava Santa Lucia ed infine dal cognome della madrina, Cecilia Aleotti). Verso il 9 aprile 1719, domenica di Pasqua, lascia Mardocheo ai Catecumeni: raggiunge il marito e con lui parte alla volta di Ferrara, Bologna, Firenze, Pisa e Livorno. Ma la grande avventura è l'arrivo a Messina durante l'assedio delle truppe imperiali del Sacro Romano Impero.
In un accampamento militare partorisce una bambina: il marito torna a maltrattarla e la bannadona per andare a Smirne. In questo frangente Alvisa prende un vascello veneziano con l'aiuto di un gesuita e ritorna nella Serenissima. Alvisa e la figlia vengono ospitate nelle case di vari convertiti: la donna va anche a lavorare presso alcuni nobili che la molestano. Siamo attorno al 1727: non abbiamo nessuna notizia del marito e dei figli: Alvisa abita in una casa nella contrada di San Giacomo dell'Orio ed inizia a confidare i propri timori e i propri segreti sugli incontri con angeli e diavoli al sacerdote della chiesa in cui lei si reca a pregare, Giovanni Maria Fattori, parroco di San Giacomo. Il sacerdote è inquietato dalla figura di Alvisa e dalle sue visioni: un inquisitore veneziano, il domenicano Tommaso Gennari obbliga il Fattori a scrivere una relazione su Alvisa. Forse indispettita da tale fatto Alvisa non si rivolge più al parroco della sua chiesa e dal 1734 il loro rapporto di amicizia si interrompe. La sua figura pare quasi intoccabile: Alvisa non vuole sottoporsi all'esame della sua anima, è certa di essere una donna santa: di ciò è convinta anche donna Bernardina Manzini, sua devota, che va a vivere con lei, non più a San Giacomo ma a San Pantalon: la Manzini e la Zambelli conducono anche una campagna di diffamazione ai danni del Fattori che muore nel 1763. Suo nuovo direttore spirituale è padre Chelini della chiesa dei Frari: la descrivono come una nuova Caterina da Siena nell'ultimo documento che abbiamo su di datato 8 agosto 1735: ha ricevuto le stimmate, continua ad avere visioni.
Ma il giudizio del Fattori ancora riecheggia tra i documenti del Sant'Uffizio: ancora si ripete il dubbio: santa o peccatrice? Verità o mistificazione per ricevere elemosine da monache e nobildonne? Ancora una volta la storia non si esprime.

giovedì 23 febbraio 2012

LA FAUTRICE DELLE GLORIE DI VENEZIA

Caterina Visconti
Grandi donne dimenticate dalla storia: se ne contano tante. Una però balza subito agli occhi degli amanti di Venezia. E' la grandissima, monumentale figura di Caterina Visconti, milanese. Lei Venezia non l'ha mai vista ma è stata la fautrice delle sue glorie. Ha permesso la creazione dei Domini di Terraferma, la formazione di un nuovo stato.
Caterina Visconti, nata a Milano, nel 1362, dal duca Bernabò e dalla duchessa Beatrice Regina della Scala. Si sposa con Gian Galeazzo Visconti, suo cugino: Caterina vive una vita infelice: pupazzo nelle mani del marito assiste alla prigionia del padre e al colpo di stato del marito che diviene duca di Milano. Ha due figli (tra cui Filippo Maria Visconti, la cui figlia Bianca Maria sarà sposa di Francesco Sforza e gli porterà la corona di Duca di Milano) e deve patire continue sofferenze.
Caterina vede morire nel 1402 il marito: contatta quale reggente il conte Barbavera ed assume il ruolo di duchessa di Milano. Allora contatterà Venezia, tramite ambasciate, alleandosi con il doge Michele Steno.
D'accordo con lui fa scoppiare la Guerra di Padova: Venezia è contro i Carraresi, dominatori patavini e contro ai Fiorentini e ai Ferraresi, insidiosi vicini. A sostenere la Serenissima e Milano accorrono i Gonzaga di Mantova.
La guerra è vinta, Venezia trionfa, gli Scaligeri sono imprigionati nelle carceri di Palazzo Ducale. Caterina, allora, donerà a Venezia le città di Vicenza, Belluno, Bassano, Feltre.
Una grande donna, insomma, Caterina: coraggiosa e generosa anche a costo della vita. Accusata dai figli illegittimi del marito di cospirare e di avere esagerate simpatie per Venezia fu arrestata dal figlio Filippo Maria, sobillato dai fratellastri e rinchiusa nel Castello di Monza.
Su di lei cadde l'oblio. Morì di peste nell'ottobre del 1404: la guerra era ancora in corso: solo dopo la sua morte Venezia otterrà Verona e Padova.
Certamente anche Caterina meriterebbe di essere ritenuta un'amica di Venezia: non aveva alcuna opportunità politica di fare tali donazioni: ma forse aveva intuito che sotto il giogo di Milano e del Biscione i Bellunesi e i Vicentini non potevano vivere: ci voleva la Serenissima.

sabato 18 febbraio 2012

ALLA CORTE DEL DOGE - L'entourage del Serenissimo Principe

Cavalier del Doge
Sono in pochi a saperlo ma il Doge, Serenissimo Principe di Venezia manteneva nel Palazzo Ducale a proprie spese anche alcuni cortigiani e gentildonne di palazzo. Ricordiamo che per "cortigiane" si intendono oggi due significati:
  • Le gentildonne di palazzo e cioè nubili ma soprattutto mogli parenti oppure amiche di un signore che vivevano nel suo palazzo
  • Le concubine di lusso del potente
Storicamente si è deciso di chiamare le prime "gentildonne di palazzo" e le seconde, appunto "cortigiane".
Scudieri del Doge
A Palazzo Ducale non mancò nessuna delle due categorie: le prime per imitazione delle principali monarchie europee le seconde per i nobili amici e parenti del doge che erano solitamente ammessi negli appartamenti privati del Serenissimo.
Non si trattava in realtà di un gruppo molto esteso: c'era qualche decina di persone. A capitanare tutti era posto il Cavalier del Doge, il quale doveva servirlo e seguirlo in ogni manifestazione pubblica. A sua volta aveva dei sottoposti, gli Scudieri del Doge. Si occupavano di funzioni di etichetta e di anticamera.
Passando invece alla figura della Dogaressa dobbiamo tener presente che se il marito aveva funzioni religioso - civili ella, invece, aveva un ruolo culturale.
La Dogaressa di Venezia
Si occupava di tenere "salotti di conversazione" in cui parlare con artisti e poeti: naturalmente il ruolo di moderatrice era di grande importanza: attraverso la sua mediazione l'élite culturale veneta poteva più facilmente discutere con le istituzioni per le commesse delle opere pubbliche: per questo la Dogaressa divenne occasionale dispensatrice di raccomandazioni e consigli. Insomma, se il primo servo della Repubblica era il doge, la sua Serenissima Consorte era la prima serva della cultura: era importante, infatti che l'educazione di una nobildonna la preparasse anche all'arte e alla poesia: una troppo timida o rozza principessa di Venezia avrebbe fatto saltare la connessione tra la cultura e la Repubblica: un danno imperdonabile!
Ma come doveva essere vivere a stretto contatto con il doge? Sicuramente non entusiasmante come nelle grandi corti europee: leggi severissime vietavano al Doge di parlare del proprio ufficio pubblico nei suoi appartamenti privati: spioni al soldo del Consiglio dei Dieci e degli Inquisitori di Stato sorvegliavano sul rispetto della norma.
I cortigiani del Doge, inoltre, non potevano elemosinare cariche: il Serenissimo Principe doveva pagare di tasca propria il loro mantenimento. Era quindi naturale che preferisse scegliere i parenti e gli amici più cari: altre leggi impedivano a questa categoria dei conoscenti del Duca di Venezia di entrare in politica. Doveva essere una grande famiglia allargata di stampo patriarcale: una condizione molto simile a quella femminile. Gli uomini non potendo esercitare commerci e dedicarsi alla politica probabilmente non dovevano trovarsi a proprio agio a Palazzo: a divertirsi veramente erano le gentildonne che accompagnavano il Doge a messa, ridevano, scherzavano e soprattutto spettegolavano, in particolare sull'ingombrante presenza delle Cortigiane, con cui dovevano condividere il tetto. Possiamo immaginare i dialoghi di critica tra le moraliste nobili della Dominante e le sprezzanti prostitute di lusso. A sovrintendere a tutte le beghe, a tutte le critiche la Dogaresse: ecco l'ennesima testimonianza dell'importanza delle donne veneziane, vero collante di una società, perchè come scrisse Guy de Maupassant: "Le donne non appartengono a una casta o a una razza: bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia. La congenita finezza, l'eleganza istintiva, l'agilità della mente, ecco l'unica gerarchia, che rende le popolane uguali alle più grandi dame".

martedì 7 febbraio 2012

I GRANDI VENEZIOLOGI - Studiosi che hano ricostruito la storia e la cultura Veneziana

Marcantonio Sabellico
A Venezia si dedicarono otto grandi storici che dal '400 all'800 collaborarono alla riscoperta di moltissime tradizioni veneziane.
Cominciamo da Marco Antonio Sabellico, letterato romano il cui vero cognome era Cocci. Nato a Vicovaro attorno al 1435 fu discepolo dell'illustre umanista Pomponio Leto, si trasferì a Venezia dove scrisse in latino opere di fama immortale sulla storia della città. Scrisse una notevole storia universale la Enneades sive Rhapsodia historiarum in 92 volumi! Parlò per la prima volta delle leggi e della politica veneziana nel De Venetis magistratibus. Morì nella città lagunare nel 1506. A proseguire la tradizione del Sabellico ci sarà Francesco Sansovino, romano, figlio del più celebre Jacopo Sansovino. Autore di 97 opere tra cui Venetia città nobilissima et singolare (la prima "guida turistica" della città) scrisse una famosa Cronologia ritenuta fino alla fine del '700 il miglior manuale di storia universale in Italia. Nel 1693 nasce a Venezia Flaminio Corner, da nobile famiglia. Dedicherà la propria vita allo studio della chiesa veneziana, ottenendo prestiogiosi riconoscimenti da Benedetto XIV. Comporrà il suo libro più celebre: Notizie storiche delle chiese e monasteri di Venezia. Morì nel 1778 dopo essersi dedicato allo studio della biografia dei principali santi veneziani. Un frate francescano, nato nel 1650, Vincenzo Maria Coronelli pubblicherà la seconda vera guida sulla storia di Venezia: Singolarità di Venezia. Fu tra l'altro autore di numerosi globi e carte geografiche apprezzate per la propria precisione.
Coronelli
Segue Giambattista Gallicciolli, nato nel 1733: interessatissimo alle lingue orientali, fu tra i primi a studiare l'ebraico e il siriaco: nel 1782 divenne insegnante di Lettere Greche. Divenne sacerdote per la parrocchia di San Cassiano, dove lavorò per la diffusione della cultura ecclesiastica: tradusse alcuni scritti dei Padri della Chiesa ma il suo capolavoro è il Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche in otto volumi. Morì nel 1806, dopo essere stato riconosciuto come il più grande studioso dell'ebraico in Italia della seconda metà del secolo diociottesimo. Ma noi oggi come conosciamo il dialetto veneto? Grazie a Giuseppe Boerio, nato a Lendinara nel 1754. Laureato in diritto, fece parte della burocrazia della Repubblica Veneta. Esordì nell'editoria scrivendo un libro sulle strutture amministrative a Verona. Dedicò uno studio giuridico del 1791 alla Podestaria di Chioggia, durante il Regno Lombardo - Veneto cooperò con il Tribunale di Venezia. Un giovanissimo Daniele Manin gli pubblicò il Dizionario del dialetto veneziano ancor oggi ritenuto il migliore nel suo campo. Morì nel 1832. Ma la cultura veneziana, si sa, è costituita anche dai suoi edifici: le lapidi della città furono tutte copiate, commentate, tradotte ed interpretate da Emmanuele Cicogna (1789 - 1868) nel suo monumentale libro Delle inscrizioni veneziane. Nell'800 tutti questi studi giungeranno nelle mani di Giuseppe Tassini, giurista e letterato veneziano nato nel 1827 che raggruppò tutto in un libro le Curiosità veneziane. In questa simpatica ed interessante opera censì tutte le calli ed i campielli di Venezia, spiegando l'origine del loro nome ed approfittando di questa spigazione per fare importanti considerazioni sulla cultura e sulla civiltà veneziana. Trattiamo infine dell'unica studiosa donna, Giustina Renier Michiel, nata nel 1755. La sua opera principalle fu L' origine delle feste veneziane in cui ogni festa diventava occasione per trattare del motivo della loro istituzione e cioè di particolari eventi storici. Morì nel 1832 e fu un grandissimo dolore per le patrizie venete che così si lamentavano: "E' morta l'ultima gentildonna veneziana!".

lunedì 6 febbraio 2012

DISPUTE LINGUISTICHE NEL '500 - Pietro Bembo e la nascita dell'italiano

La lingua che oggi usiamo in Italia, come tutti sanno, discende dal Latino e si tratta di un dialetto toscano, tipico della zona fiorentina, tratto dalle opere del Petrarca e del Boccaccio, su modello di alcuni termini lessicali usati da Dante: già il Sommo Poeta aveva nel De vulgari eloquentia (Sul modo di parlare del popolo) trattato l'importanza di una lingua volgare per il popolo d'Italia. La città di Venezia si era fermamente opposta all'utilizzo di una lingua che riteneva straniera. Ad aggravare la situazione erano i letterati tradizionalisti che volevano ripristinare il Latino e gli autori milanesi che scrivevano nella cosiddetta Koinè Lombarda.
Pietro Bembo
Nel '500 il dibattito andò aggravandosi: la Repubblica Veneta, centro principale dell'editoria italiana, imponeva agli altri stati di comprare libri stampati nel suo territorio, la maggior parte di essi in latino.
Solo Pietro Bembo, cardinale veneziano, che da bambino aveva vissuto con il padre a Firenze risolse la difficile disputa oggi chiamata "Questione della Lingua".
Bembo aveva studiato con Costantino Lascaris, celeberrimo grecista e si era affezzionato alla lingua di Platone ed Aristotele ed in alcuni suoi scritti aveva anche criticato l'origine popolare del dialetto della città natia.
Tra il 1506 e il 1512 scrive Le prose della volgar lingua in cui propone la prima grammatica dell'Italiano.
Il fatto che un veneziano accettasse la lingua fiorentina divenne un simbolo per tutta l'élite culturale della Penisola: così, da allora, l'italiano divenne una lingua e il veneziano fu ridotto a semplice idioma.
Nel '700 Goldoni tentò, con le proprie opere, di riportare al precedente livello di prestigio del suo dialetto.
Alessandro Manzoni produrrà nel '800 I promessi sposi: di fronte a questo romanzo che propose, tra l'altro, con il suo lessico, un modello di italiano da usare nelle opere letterarie, Venezia dovette arrendersi: ormai la sua indipendenza era finita e così, il suo idioma divenne dialetto, status in cui ancor oggi è relegato, schiacciato dalla superiorità di autori come Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Dante, Macchiavelli, con cui Goldoni e Giorgio Baffo non possono purtroppo competere.

sabato 4 febbraio 2012

LA TERIACA - La mitica medicina prodotta dagli speziali veneziani

In Greco Antico il termine phàrmakon indicava sia la medicina che il veleno: è il grande potere della medicina: guarisce se operata con saggezza, uccide se la si pratica con ignoranza. Nei secoli del Medioevo Venezia fu una grande importatrice di spezie e i suoi farmacisti preparavano la teriaca (la cui ricetta fu trascritta da Andromaco, archiatra greco d'origine cretese ai servizi di Nerone), un medicinale che si diceva essere la panacea di tutti i mali. Essa conteneva tra i suoi vari ingredienti:
Un'operetta del sec. XVII sulle proprietà della teriaca
  • Carne di vipera
  • Angelica
  • Genziana
  • Mirra
  • Incenso
  • Timo
  • Tarassaco
  • Oppio
  • Potentilla
  • Miele dell'Attica
  • Liquirizia
  • Anice
  • Valeriana
  • Vin di Spagna
Questo medicinale era anche abbastanza costoso: inutile parlare della sua impotenza di fronte alle malattie più gravi: solamente nel secolo XVIII la preparazione di questo farmaco fu abbandonato: oggi a causa della complessità della sua composizione e alla sua proverbiale taumatrugia è ancor oggi rimasta nella tradizione popolare come rimedio per ogni male. Forse non guarì molti malati ma sicuramente portò numerosi soldi nele tasche degli speziali: basti pensare che il suo commercio, nel secolo XVI era aumentato a causa di diversi trattatelli "scientifici" di medici e dottori su questo portentoso medicinale.

VENICE ON ICE - Quando gela la laguna

3 febbraio 2012: la laguna ghiacciata
In questi giorni si sta molto parlando dell'ondata di freddo in Italia ed in Europa: anche quest'anno si effettuata la gelata della laguna!
Un caso abbastanza raro, accaduto diverse volte: nel 1431, 1490, 1514 e 1545 ma il vero secolo di ghiaccio è stato il Settecento: il gennaio 1709 è il caso più famoso ma anche nel febbraio 1755 il fenomeno si ripete... Nel febbraio 1787 invece, la popolazione ed i nobili si radunano tra le acque della laguna e fanno feste sul ghiaccio: l'anno successivo l'entusiasmo della gente cala, stanca del gelo e del freddo che impedisce il regolare svolgersi delle attività lavorative.
Gabriel Bella: La gelata della laguna del 1709
Nel 1929 e nel 1956 la laguna gela nuovamente e infine ancor oggi nel 2012. Non dimentichiamoci mai che stiamo parlando di una città di mare ma che è freddissima, spazzata dalla bora, sommersa dall'acqua alta e in cui la temperatura scende fino a 0° C causando copiose precipitazioni nevose... Ma questa è un'altra storia... La storia della neve a Venezia.

venerdì 3 febbraio 2012

LA FESTA DELLE MARIE A VENEZIA - Nel giorno della Candelora un'antichissima tradizione veneziana

La Purificazione di Maria (L. Lotti)
Nel Medioevo si diffondeva nel mondo cristiano (anche se tale fenomeno è attestato fin dal IV secolo a Roma) la devozione Mariana ed in particolare, si vedeva come festa - simbolo della Santità della Vergine la sua Purificazione, il 2 febbraio. Una consuetudine ebraica prescriveva che nel giorno della presentazione del figlio al tempio la madre chiedesse perdono a Dio: infatti il concepire un figlio presupponeva un peccato, una violazione alla verginità e bisognava purificarsi. Il modello di castità di Maria fu di riferimento per ogni madre e sposa Cattolica di ogni secolo: così per ricordare la grande virtù della Madonna nacque l'abitudine in tante città italiane di celebrare il 2 di febbraio tutti i matrimoni dell'anno.
Ma come ogni tradizione che si rispetti, c'è un motivo alla sua sacralità: ed eccolo qui: una leggenda... E' il 943, il doge Pietro Candiano dogava su Venezia quando dodici spose, pronte ad andare a San Nicolò al Lido in un corteo di barche per incontrare gli sposi. Durante il tragitto alcuni pirati triestini interrompono il regolare svolgersi della processione in mare, sbaragliano nocchieri e rematori e rapiscono le dodici fanciulle. Gli arrabbiatissimi veneziani ottengono dai Casseleri (fabbricanti di cassette in cui le spose avevano riposto la dote) un valido aiuto: armatisi velocemente remano fino a Caorle, si scontrano con i pirati, trionfano e tornano in patria con le dodici spose. In ricordo di ciò il doge istituirà una caritatevole tradizione...
Ogni anno il Doge si premuniva di scegliere dodici ragazze belle e povere, chiamare dodici famiglie patrizie chiedendo a ciascuna una somma di denaro e far preparare belle vesti e doti per le ragazze.
La chiesa di Santa Maria Formosa
Il 2 febbraio le Marie, radunate nella chiesa di San Pietro di Castello, venivano benedette dal vescovo, in barca raggiungevano il Doge nella Basilica di San Marco, assistevano a un'altra messa e percorrendo calli e campielli giungevano a Santa Maria Formosa per l'ultima messa.
Pietro Orseolo, doge ricchissimo, lascia un terzo del suo patrimonio affinchè si finanzino le Dodici Marie: ma sono troppi gli eccessi, le spese... Spesso le Marie sono sostituite da statuette lignee (Marie de Tola) in odio al popolo. Poi dal 1389 la festa non viene più celebrata. Muore così una delle più caratteristiche feste della Repubblica nel Medioevo.